Gli spazi bianchi sulla mappa

ZuidpoolCi volevano le vacanze per ridare fiato al mio bisogno di narrativa, arenatosi chissà dove fra un articolo, un’intervista e l’ennesima revisione dell’ennesima tesi. Ci volevano le vacanze e Michael Chabon.

Doveva chiamarsi Ebrei con la spada, poi Chabon ha optato per Gentlemen of the road, che in italiano è infine diventato Cronache di principi e viandanti. Di solito contesto le traduzioni dei titoli stranieri – in genere di film – che si scostano troppo dall’originale, ma qui mi sono trovato davanti a una fortunata eccezione. “Cronache” è una di quelle parole in grado di piombare nel mio immaginario e rimettere in moto tutti i suoi macchinari, spingendoli a pieno ritmo. È una parola che evoca grandi imprese, viaggi, conflitti, inganni, che celebra eroi e antagonisti, vittime e carnefici, amici e traditori. È una delle parole più infarcite di avventura che mi venga in mente. E Cronache di principi e viandanti è esattamente questo: un’avventura, sospesa fra ironia, epica e malinconia, con personaggi che Chabon tratteggia con poche, splendide pennellate e che, pur restando nei canoni del genere, sono vivi e caratteristici, ben lontani dalla solita riproposizione dei soliti stereotipi. Il solo difetto che ho imputato a questo libro è di essere volato via in un amen.

I protagonisti delle Cronache (già che linko Holden & Co, uso pure le sue stesse immagini).

Per questo, una volta finito, ho sentito il bisogno impellente di avere altro Chabon da leggere e poiché ero rimasto stregato dal suo approccio all’avventura – a proposito, non fatevi scappare la post-fazione delle Cronache – ho cercato qualcos’altro di suo. Così, pasticciando con il mio nuovo Kindle, mi sono imbattuto in Mappe e leggende, e già dal titolo ho capito che sarebbe stata la mia prossima lettura.

Sono saggi, saggi sulla scrittura, saggi autobiografici, saggi sulla narrativa di genere, saggi sull’avventura, saggi sull’ebraismo. Si parla di divinità nordiche, fumetti, radici culturali, Sherlock Holmes, golem, nostalgie, bricconi, turbamenti esistenziali, planimetrie e strani cappelli, che mi hanno accompagnato fra cene abbondanti e scampagnate in vecchi castelli (tanto per non dar riposo al mio immaginario), prendendomi a braccetto e portandomi nel 2015 con una spinta e un entusiasmo verso la narrativa – letta o scritta che sia – che mi piace vedere come un incoraggiamento nel perseguire uno dei buoni propositi del nuovo anno.

Scrivere di più. Anzi, raccontare di più.

Sono stati versati – e non di rado sprecati – fiumi d’inchiostro sull’impulso di scrivere che guida gli scrittori, i geni come i cani. Non c’è intervista al peggiore degli autorucoli che sempre più intasano le librerie nella quale non si parli del sacro fuoco della scrittura, della vocazione quasi divina al racconto e via dicendo. L’insofferenza che nutro nei confronti della banalizzazione di questo concetto mi rende quindi difficile parlare del bisogno di scrivere. Eppure questo bisogno c’è, esiste ed è forte, e il criticarne la banalizzazione che ne viene fatta non dovrebbe farcelo dimenticare. Il punto, se mai, è che scrivere e raccontare sono azioni che non possono basarsi solo sull’impulso, su una divina estasi che guida le dita sulla tastiera. Non c’è mito più duro a morire di quello dell’ispirazione come motore principale, se non addirittura unico, della narrativa e dell’arte in generale.

Un mito nel quale è bello credere perché ci consente di continuare a pensarci dei potenziali artisti che stanno aspettando il momento giusto, l’ispirazione illuminatrice grazie alla quale trasformare in realtà il romanzo che da tempo custodiamo nel cassetto. Parlo di romanzo un po’ perché è la forma artistica alla quale mi sento più vicino e un po’ perché è quella considerata più accessibile. Per girare un film, comporre una canzone o realizzare una scultura servono strumenti ben precisi, per scrivere bastano un foglio e una penna. Chiunque può provarci. Basta avere l’ispirazione.

Peccato che questo mito rifletta solo una parte della realtà, quella più comoda e rassicurante, in un’epoca di dilettanti allo sbaraglio come la nostra, dimenticando completamente che per scrivere e raccontare bisogna prima leggere, capire e studiare. Cioè faticare.

Scrivere un romanzo fantasy non vuol dire soltanto inventarsi una storia dove un eroe o un’eroina fanno cose, salvano gente, si scontrano col cattivo di turno e alla fine si innamorano di questo o di quella. Scrivere un racconto pulp non significa soltanto prendere dei tizi che parlano come gangster tarantiniani e infilarli in una trama piena di sangue, pallottole e parolacce. Raccontare una storia weird non significa soltanto buttare nel frullatore un pacco di cose che non c’entrano nulla le une con le altre perché tanto l’importante è il “famolo strano”.

Ma non limitiamoci ai romanzi: come sarebbe stata la saga di Mass Effect se la scrittura di trama e dialoghi non fossero stati supportati da una robusta fase di documentazione? Non così bella, credetemi. E che dire dei giochi di ruolo? Qualunque master sa bene che un po’ di sana documentazione è fondamentale per dare forma e sostanza alle proprie storie, tanto che qualunque manuale ormai esplicita chiaramente le sue fonti di ispirazione e, fra di esse, non è raro trovare saggi. L’ambientazione di Numenera sarebbe stata la stessa senza la speculative fiction evolutiva di Dougal Dixon? No, mi ha detto Monte Cook.

La narrativa, soprattutto quella di genere, è fatta di canoni e archetipi che non devono per forza essere rispettati ma devono comunque essere conosciuti, per poi poterci giocare come si preferisce, anche per violarli, ma con la giusta dose di consapevolezza. Perché, alla fine, una buona storia, che si tratti di una barzelletta o di un’epopea, non può fare a meno di una sua coerenza interna, di una sua struttura, di una sua credibilità, senza le quali la sospensione dell’incredulità s’incrina e svanisce, trascinando nell’abisso con sé il senso di meraviglia.

Un narratore non può non essere anche uno scienziato, non può non studiare e approfondire per rendere più intenso e coinvolgente il piacere della storia che vuole condividere. L’ispirazione è nulla senza un po’ di sana e autentica fatica. Non a caso, tanto lo scienziato quanto il narratore vogliono andare là dove si trovano i leoni, in quello spazio bianco del territorio inesplorato dove un esploratore può andare incontro all’avventura con lo stesso entusiasmo di un ragazzino – perché l’infanzia, ci ricorda Chabon, “nel migliore dei casi è un’incessante avventura” – e sperimentare il brivido di un potere così grande come quello del nominare, che cammina fianco a fianco con quello del creare.

La terra incognita.

Anche di questo parla Mappe e leggende. Anche per questo è un libro nel quale sono felice di essere incappato.

Perché tanto più procedevo nella lettura, tanto più cresceva in me la voglia di raccontare ed esplorare, di avventurarmi in territori più o meno conosciuti, di rimaneggiare canoni e archetipi, di mischiare umori e sperimentare trasmutazioni, di creare golem di cui magari perdere il controllo.

4 Pensieri su &Idquo;Gli spazi bianchi sulla mappa

  1. Oh, bravo ragazzo, finalmente ti sei deciso. Io spesso spessissimo mi rileggo il primo saggio di quella raccolta, “Il briccone vestito di lustrini”; mi serve sempre per rinfrescarmi le idee su quello che significa davvero “intrattenimento”, e togliermi di dosso un po’ di snobismo.

    Ah, bel template; quasi quasi te lo copio, così siamo pari con le immagini. 😉

  2. Per un attimo ho pensato che avessimo già lo stesso identico template… che briccone.
    E a proposito di bricconi, sì, quel primo saggio, con tutto il discorso sull’intrattenimento, è davvero una boccata d’aria fresca.
    E a proposito di tuoi consigli, una delle prossimissime letture sarà Joe Hill. Peccato solo che la copertina non sarà quella superfica che hai postato tu.

  3. direi che fa il pajo con l’ottimo testo di Eco “Storia delle terre e dei luoghi leggendari “….per una lettura piu’ matura,per cosi’ dire.

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