Realisti di una realtà più grande

Da Oggiscienza, 31 gennaio 2018

Cinque premi Locus, quattro Nebula, due Hugo e un World Fantasy Award. E stiamo parlando solo di romanzi. Gli stessi premi li ha poi vinti più volte con i suoi racconti. E poi ci sono il National Book Award for Young People’s Literature del 1973, il Pulitzer del 1997 come finalista nella categoria Fiction, il titolo di Leggenda Vivente della U.S. Library of Congress e svariati altri riconoscimenti alla carriera. Il più recente di essi è la medaglia conferitale dalla National Book Foundation per “il suo impatto trasformativo sulla letteratura americana”.

Ursula K. Le Guin è morta il 22 gennaio, a 88 anni, nella sua casa di Portland, e ha lasciato un’impronta profonda e indelebile nella narrativa. Impronta che l’incompleto elenco riportato qui sopra non basta certo a descrivere. Figlia di un antropologo e di una scrittrice, si appassionò di biologia e poesia, studiò letteratura francese e italiana, e assorbì le influenze multiculturali dell’ambiente in cui crebbe. I suoi primi romanzi furono respinti ma all’inizio degli anni Sessanta iniziò a pubblicare con una certa frequenza.

È stata una creatrice di mondi immaginari ricchi di sfumature, capace di esplorare le possibilità della fantascienza e del fantasy ribaltandone molti stereotipi e introducendo temi come il femminismo, il multiculturalismo, l’ambientalismo, l’anarchia e il Taoismo. Per lei il futuro era “un laboratorio sterile e sicuro nel quale sperimentare idee relative alla realtà” e la narrativa di genere non ha nulla da invidiare a quella realista. Anzi, quest’ultima rischia di essere più limitata riguardo ai temi che può affrontare.

“Ho scritto libri di genere perché riuscivo a venderli, ma ho anche scritto quello che volevo scrivere”, ha raccontato in un’intervista con il critico letterario John Freeman. “In verità penso che sia stato proprio il fatto di scrivere all’interno di un genere a permettermi di essere più libera rispetto ad altri scrittori, che tentavano di avere successo con ciò che andava per la maggiore”.

Nella sua fantascienza, più che sugli aspetti scientifici e tecnologici si è concentrata soprattutto sulle dinamiche antropologiche, politiche e sociali. Ha creato un’ambientazione da space opera – il ciclo dell’Ecumene, o ciclo hainita, che include alcune delle sue opere più famose come La mano sinistra delle tenebre e I reietti dell’altro pianeta – intrisa di riflessioni su temi come capitalismo e colonialismo, identità sessuale, conflitti culturali. Fanta-antropologia, l’ha definita Vincenzo Latronico.

L’altro pilastro della produzione letteraria di Le Guin è la saga fantasy di Earthsea, composta da cinque romanzi e otto racconti. Un mondo al quale l’autrice era molto legata e al quale è tornata spesso – il primo romanzo, A wizard of Earthsea, è del 1968 mentre l’ultimo dei racconti, The Daughter of Odren, è del 2014. Taoismo, multiculturalismo, femminismo, accettazione della morte; questi sono i principali temi affrontati nella saga, che ci offre anche un’interessante caratterizzazione della magia, basata sul vero nome – non solo delle persone, ma anche delle cose – e sulla lingua dei draghi, che non può essere usata per mentire. Idee radicate nella mitologia e nel folklore che Le Guin ha reso estremamente popolari.

La magia di Earthsea non funziona come la scienza ma non è neanche una capacità misteriosa e occulta. È una forma di conoscenza razionale, che richiede una combinazione di talento innato, studio ed esercizio. Non a caso, nell’arcipelago di Earthsea esiste una scuola di magia, guidata da un vecchio e potente mago dalla lunga barba. In questa scuola il protagonista non solo imparerà ad affinare il suo talento magico, ma troverà due amici preziosi (un ragazzo e una ragazza) e un compagno animale, si scontrerà con un arrogante studente di sangue aristocratico e dovrà confrontarsi con un oscuro nemico al quale è intimamente legato (vi ricorda qualcosa?).

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