Tassonomia draconica, dal folklore a Nature

Da Oggiscienza, 2 ottobre 2019

Qui su Stranimondi abbiamo recentemente raccontato come diversi autori fantasy siano stati in grado di raccontare il rapporto dell’uomo con la natura evidenziandone sfumature ed elementi di complessità. Potrà sembrare strano, visto che il fantasy è spesso considerato irrazionale e decisamente poco scientifico, ma si tratta di un mito che si basa su fraintendimenti e pregiudizi. Certo non mancano romanzi, film e giochi di questo genere che giocano sulla facile retorica del “ritorno alla natura”, e su rozze contraddizioni fra boschi verdeggianti e città sporche e caotiche, ma ci sono anche autori che hanno saputo trovare interessanti spunti scientifici per le loro storie di maghi ed eroi.

Tanto che c’è chi, come la giornalista e scrittrice americana Annalee Newitz, sostiene che chi è affascinato da biologia, ecologia e scienze naturali deve rivolgersi al fantasy, più che alla fantascienza, perché è questo il genere che – fatte le dovute eccezioni – riesce a trarre più ispirazione da queste discipline per alimentare la plausibilità dei propri mondi secondari. Newitz cita diversi casi letterari come Ursula Le Guin, George R.R. Martin, Nora Jemisin, Marie Brennan (con il suo Natural history of dragons, non ancora tradotto in Italia), Naomi Novik e Jeff VanderMeer.

Questo interesse di diversi autori fantasy per la scienza vale anche nella direzione opposta: il grande successo di Game of Thrones ha spinto diversi scienziati – fra i quali il famoso divulgatore americano Neil deGrasse Tyson – a fare speculazioni sul volo dei draghi o sull’insolito sistema climatico del mondo creato da George R.R. Martin. Ma il premio per la più interessante disputa fra scienziati su temi fantasy va senz’altro a Peter Hogarth, biologo all’università di York, e Robert M. May, professore di ecologia all’università di Oxford.

Nel 1976, Hogarth pubblicò un articolo sul Bulletin of British Ecological Society dal titolo inequivocabile, Ecological aspects of dragons, nel quale si proponeva di fare una revisione dello stato dell’arte della ricerca su questo taxon estinto. Pur lamentando l’assenza di campioni disponibili da studiare, lo studioso britannico analizzava le dinamiche di popolazione di queste mitiche creature, il loro ciclo riproduttivo – la maggior parte sono ovipari, ma alcuni pare siano vivipari – e le loro necessità alimentari, che di certo devono aver avuto un forte impatto sugli ecosistemi. Si soffermava brevemente sul loro comportamento, sottolineando la possibile esistenza di dimorfismo sessuale e citandone la presunta notevole intelligenza, per poi concentrarsi sulle cause della loro estinzione, avvenuta entro la fine del XVIII secolo e dovuta a una serie di cause non sempre facili da indagare. Una è l’eccessivo sfruttamento a fini commerciali, alimentato dal grande valore di mercato di molte parti del drago (zanne, scaglie, cuore, eccetera), alla quale si aggiunge lo sterminio da parte di cavalieri e santi, e soprattutto la perdita di credibilità. Ma c’è anche la possibilità – molto supportata da Hogarth – che la loro nicchia concettuale sia stata occupata, in tempi più recenti e altamente tecnologici, dagli UFO.

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